La Natura.
La località del ritrovamento è detta “S. Silvestro”. Sita nella piana di Giovinazzo a circa m 70 s.m. nel terreno di proprietà del sig. Vincenzo fiorentino, dove l’enorme accumulo di pietre in cui affondavano le radici annosi carrubi prendeva il nome di “Specchia Scalfanario”, distante m 80 circa dalla strada intercomunale che da Giovinazzo conduce a Terlizzi e fiancheggiata da un sentiero che ha inizio sul lato ovest della stessa strada, a km 4.100 dal passaggio a livello della linea ferroviaria Bari-Foggia, prima di inoltrarsi nei campi coltivati a mandorli ed oliveti, costellati di trulli suggestivi (Un bel trullo è sorto recentemente a pochi metri di distanza dal “dolmen”. Esso costituisce nel luogo, come in altre contrade della regione Appula, la chiara testimonianza della continuità di una particolare tecnica costruttiva che affonda le sue radici nella protostorica).
Così scrive Gino Felice Lo Porto (Estratto dal Bullettino di Paletnologia Italiana Nuova Serie XVIII – Volume76 – 1967) sulla collocazione del Dolmen san Silvestro.
Continua: La “specchia”, prima che fosse sfruttata per detti deprecabili lavori, si presentava nella zona come un ponticello a pianta sub-circolare di m 35 circa di diametro e oltre m 4 di altezza sul piano di campagna attuale e costituito di terriccio e pietrame calcareo amorfo, al cui accumulo dovette anche contribuire da lunghissimo tempo l’opera di “svecchiatura” dei terreni circostanti, secondo una pratica agricola tipicamente pugliese. Al disotto di questa specchia si eleva il vero “tumulo” di terra nerastra e piccole pietre, tenute insieme dal fitto intrico delle radici, tumulo che, nonostante la quasi completa rimozione abusiva dei materiali che lo componevano, è risultato a pianta circolare di m 30 di diametro e contenuto da uno zoccolo costruito a rozze lastre e blocchi calcarei di medie dimensioni, allineati in assise sovrapposte opportunamente inzeppate di pietre più piccole. Di questa crepidine, che doveva raggiungere in origine forse l’altezza di m 1,30 circa, si è potuto salvare un breve tratto di m. 3,80 di lunghezza e m. 0,80 di altezza. Esso ha lo spessore di poco più di m. 0,50 e da un saggio praticato lungo la sua faccia interna mostra chiaramente che ogni blocco o falda che lo compone si incunea nella massa pietrosa della parte superstite del tumulo. Questo misurava alla sommità circa m. 4 di altezza: fatto rilevato all’atto del nostro primo sopralluogo e prima che si rendesse necessaria per la statica del monumento la rimozione parziale della congerie di pietre e terra che opprimevano le sue strutture sottostanti.
Siamo a metà degli anni ’60, quando l’area ancora privata, veniva utilizzata a scopi agricoli ed erano in corso importanti lavori di viabilità favoriti dalle leggi post-conflitto mondiale.
L’unica specie arborea citata nel testo di Lo Porto è il carrubo (Ceratonia siliqua L., 1753), ancora presente nell’area del Dolmen: specie arborea a chioma espansa, ramificato in alto. Può raggiungere un’altezza di 10 m. Ha frutti, chiamati carrube o vajane, sono dei grandi baccelli, detti “lomenti” lunghi 10–20 cm, spessi e cuoiosi, dapprima di colore verde pallido, marrone scuro a maturazione: presentano una superficie esterna molto dura, con polpa carnosa, pastosa e zuccherina che indurisce col disseccamento. I frutti contengono semi scuri, tondeggiati e appiattiti, assai duri, ritenuti particolarmente uniformi come dimensione e peso, dal loro nome arabo (qīrāṭ o “karat”) è stato derivato il nome dell’unità di misura (carato) in uso per le pietre preziose, equivalente a un quinto di grammo. In realtà la variazione del peso dei semi di carrubo, presi alla rinfusa, arriva al 25%. Come d’uso nella tradizione popolare, i semi, ridotti in farina, venivano usati come antidiarroici. I frutti si conservano per molto tempo e possono essere consumati, comunemente, freschi o secchi o, in alternativa, passati leggermente al forno.
Oggi i frutti (privati dei semi) vengono usati per l’alimentazione del bestiame. Un tempo furono usati come materiale da fermentazione per la produzione di alcool etilico.
I semi, durissimi, sono immangiabili; possono invece essere macinati, ottenendosi così una farina dai molteplici usi, che contiene un’altissima quantità di carrubina, la quale ha la capacità di assorbire acqua in quantità pari a 100 volte il suo peso.
Oggi nell’area adiacente sono presenti alcune piante di Ulivo (Olea europaea L., 1753) e di pino marittimo (Pinus pinaster Aiton, 1789) ed pino nero (Pinus nigra J.F.Arnold, 1785) alberi sempreverdi della famiglia delle Pinaceae.
La loro diffusione nella Regione Puglia è dovuta soprattutto ad alcuni interventi legislativi successivi al II conflitto mondiale; significativa è stata la legge del 29.04.1949 nº 264 (c.d. Legge Fanfani) che ha consentito di operare, per la prima volta, anche rimboschimenti in pianura, prevalentemente di conifere e specie esotiche.
L’obiettivo primario non era il rimboschimento in sé, ma l’occupazione della mano d’opera senza lavoro per distribuire denaro; mediante l’istituzione di diversi cantieri sono stati imboschiti circa 30.000 ha/anno per quasi 20 anni, con l’utilizzazione soprattutto di Pino nero, in grado di produrre legno di scarsa qualità e con deboli accrescimenti. Nel 1950 la legge nº 646 del 10.08.1950 istituiva la Cassa per il Mezzogiorno (successivamente ISMEZ) che nel 1975 finanzia un progetto allo scopo di incentivare nuove superfici forestali con funzione tanto produttiva che di protezione dall’erosione superficiale, mediante l’utilizzazione di Pino laricio, insigne e d’Eucalipto. Il progetto, nel suo insieme, è destinato ad andare a regime dopo 35 anni dall’avvio e più che di rimboschimenti si tratta in realtà di impianti che s’inseriscono nell’area di competenza dell’arboricoltura da legno. Si prevedeva di interessare in complesso 46.000 ha, realizzando un incremento medio di circa 10 m³/ha con una produzione a regime di circa 4,5 milioni di m³ di legname. E’ previsto l’impiego di 4,8 milioni di giornate di lavoro all’anno, corrispondenti a circa 20.000 occupati diretti, cui si deve aggiungere l’indotto, stimato nella misura di 12.000 addetti.
Grazie a questi interventi, la Puglia, ha conservato, non senza sacrifici, ampie aree boscate che oggi rappresentano grandi superfici inserite in Parchi Regionali.